SCORRE LENTO IL FIUME
Scorreva lento il fiume attraversando la città, quando la pioggia cadeva fitta, o la neve prima a piccoli fiocchi e poi a grandi lenti scendeva sulle sponde, addensandosi e imbiancando la sua schiena. Lo vedevo dai muri degli argini tutte le volte che mi avvicinavo all’estremità del cuore vivace di quella città d’arte, che per secoli e secoli aveva vissuto grazie al movimento e ai tempi di vita o di morte di quel corso d’acqua, talvolta contenuto, altre volte straripante fino ad invadere strade e case, come già era accaduto e non una sola volta. E se da calmo diveniva minaccioso, il timore nuovo insorgeva nell’animo dei suoi ammiratori, consapevoli che avrebbe potuto colpire ancora e distruggere ogni cosa avesse incontrato sul suo cammino. Se altrimenti il suo corso restava lieve, delicato era il suo lambire i piloni dei ponti e struggente la memoria di chi aveva imparato ad amarlo.
Scorreva lento il fiume e quel fiume era l’Arno, e quella città, che lo accoglieva nel suo tragitto e nel grembo, Firenze. E come tutti i fiumi era lì, pronto a raccontarmi la sua storia.
In quel pomeriggio d’autunno inoltrato la sua lentezza mi colpì più di tutte le volte che lo avevo osservato sporgendomi dal suo più celebre ponte, perché nel cuore avevo il tonfo del disagio, dell’inadeguatezza, della privazione di una speranza. Avevo combattuto con tutte le mie forze e l’energia dell’intelletto per continuare le mie ricerche all’Università, e per qualche anno ne avevo avuto occasione e possibilità, ma il governo aveva privato di fondi l’Ateneo dove prestavo la mia collaborazione di studiosa e tutto svanì: le mie aspettative di una vita abbracciarono la vista di quel fiume che andava lontano, talvolta lento, talvolta più veloce, con le mie amarezze e le mie delusioni. E come il corso di una vita, riproponeva le sue tappe, dalla foce alla bocca, quasi a consolarmi con le sue ripide e risalite, o le sue scese, le sue cascatelle, i suoi dirupi e le sue spiagge.
Non potendo urlare a gran voce, come avrei voluto, tutta la mia rabbia e il mio dolore, mi lasciai cullare da quella vista di acqua che pian piano addolcì il mio malessere e mi riportò alla bellezza di ciò che avevo intorno: angoli, vicoli e palazzi dallo sfarzo antico e mai decaduto, nemmeno sotto la scure dei mal governi che si erano impossessati delle sue meraviglie quando il tempo era stato meno propizio e favorevole, nei secoli, come lo era con me.
Avevo attraversato Ponte Vecchio, il ponte-città di quella città, così trasudante di storia, senza poterne fare a meno, attratta da un incantesimo che di flutto in flutto si rinnova perenne su quelle sponde, immaginando volti e persone di quei ripetuti passaggi della storia che l’avevano frequentato e lo frequentavano ancora; spiriti invisibili abbarbicati alle sue arcate e tutelari di così tanto splendore. Se avessi chiuso gli occhi avrei potuto riabbracciare i loro sguardi lontani o udire il brusìo di quelle voci. Ma solo per una frazione di tempo, che già il fiume aveva risucchiato nel suo rumoreggiare quei frastuoni in un unico vortice. Sospiri d’amore o grida di dolore, promesse vane o ultimi abbracci; qualunque cosa avesse percorso il ponte: speranze, sofferenze, gioie o altri compromessi con la vita, il fiume lento o impetuoso li avrebbe trascinati via con il suo andare.
Gli uomini si fermano più spesso a ridosso degli eventi e impotenti abbracciano la sorte, ma il fiume scorre seguendo una forza naturale e va oltre le rovine dei tempi. Sposa l’ineluttabile e consente il passaggio da una sponda all’altra, ma a differenza degli uomini è preparato agli sbalzi da un dirupo all’altro, ai cambiamenti del vento, alle tracimazioni. Gli uomini no, non sono mai preparati. Non lo sono stata nemmeno io, per quanto mi fossi uniformata a quell’incantesimo di fiume.
Mi sporsi fissando il movimento delle acque, poi mi voltai a rimirare il riflesso dei palazzi illuminati che, affiancati sulle sponde, erano pure ammutoliti da quella calma apparente. Ne riconobbi i profili, ad uno ad uno, come luoghi consueti dei ricorsi storici. Quante volte ero rimasta abbagliata da quei tetti e da quelle facciate riprodotte in seppia dai fratelli Alinari. Il contrasto tra la luce e le ombre rendeva l’istante perenne e indipendente da me. Dal quel fiume era nata una città, come da tanti fiumi erano sorte altre città nel mondo. E tutte avevano un debito e un legame con il proprio corso d’acqua, pigro o turbolento che fosse. Un debito di gloria o di vitalità. Un legame di morte o di sopravvivenza.
Ponte Vecchio era uscito illeso dalla Seconda Guerra grazie ad un cittadino semisconosciuto che, all’insaputa dei suoi concittadini, l’aveva salvato dall’attentato delle forze tedesche, staccando a rischio della propria vita i fili di dinamite che lo tenevano avvinghiato, mentre altri ponti e altri luoghi avevano subito ben altra sorte. Ripensai a quella storia singolare, a quell’uomo coraggioso che aveva salvato il magnifico ponte, e durante quel pomeriggio il fiume salvava me con la sua carezza dalla più profonda delle desolazioni restituendo un favore, uno fra tanti, alla sua amata città e a chi in quel momento l’abitava. Dopo una vita dedicata allo studio e alla ricerca, mi ero ritrovata fuori dai giochi di potere, fuori dalle occasioni per dare il meglio di me in ciò che sapevo e amavo fare. E mentre ero assorta nei miei pensieri, sentii l’anima di quel fiume; ogni corso d’acqua per sua natura ne ha una. Così pure l’Arno: occorreva la mia attenzione e mettermi in ascolto.
Verso lungarno degli Archibusieri scorsi un ragazzo muoversi vivace e baldanzoso, con vesti lucide di seta. Cantava di boschi e di uccelli, di sassi tondi e appuntiti, di mulini, di conce, di tintorie e macelli, di secche, di spiagge e di piene. Cantava di pescatori e di rematori, di tempi di pace e di guerra. E quella ballata da cantastorie fece breccia nel mio cuore. Ma il canto fu breve e il suo aspetto mutò, il ragazzo divenne un genio vecchio e incurvato. Ma non lo avevo già visto a Pratolino, seduto e con le membra allungate? Le sue vesti opache e sudice, non più lucenti, l’aria stanca e rassegnata. E come era apparso, svanì. Quel giovane poi vecchio si era dileguato lungo il greto delle acque non più chiare, utili e navigabili di un tempo. Guardai il panorama; restava a memoria, quello, e lo scarico dei rifiuti, le sponde melmose, le acque spumeggianti. Oltre ad una bellezza matura che aveva sfidato ponti, discese e uomini.
Disorientata mi ero avvicinata al fiume, e il fiume mi aveva raccontato la sua storia, poi me ne ero di nuovo allontanata, certa che avrei potuto fare ancora qualcosa di buono per me e per gli altri, senza tentennamenti, senza pensare ai traguardi. Salire, scendere, correre, fermarsi: nello scorrere continuo della vita, come il fiume, i miei giorni sarebbero scivolati su un tragitto tutto da segnare, con fatica, con amore.
Anche il fiume, come me, aveva incontrato i suoi ostacoli dal Falterona al mare; non una pianura facile e libera dove divagare, ma un letto tutto da conquistare. Aveva dato energia e nutrimento, servito ville e porticcioli, accolto navicelli e legnami. E al mio futuro la sua carriera regalava un orizzonte senza fine. Ci sarebbe stato ancora tempo per invecchiare, per sedermi stanca sulla sponda d’arrivo a rimirare le dimore antiche.
Scorreva lento il fiume, ricordandomi la bellezza e la pienezza della Vita. Lasciai il ponte, voltandogli le spalle, e feci ritorno a casa. Mi aspettavano gli anni più difficili, ma senz’altro i migliori.
di Tiziana Fratini © alias Madame Lapress
(Il racconto ha ricevuto una segnalazione di merito al 6° Concorso Letterario Nazionale San Lorenzo 2018)